• Lontano da dove?

    La drammatica immagine degli Afgani che si aggrappano ai carrelli degli aerei per fuggire dai Talebani per poi cadere al suolo in fase di decollo rimarrà a lungo impressa nelle nostre menti. Quando non si possiede più nulla non si ha più niente da perdere. E’ così: la forza della disperazione porta le persone a rischiare il tutto per il tutto. Questi fatti fanno riflettere molto…

    In questo mondo pieno di guerre, calamità e povertà milioni di persone fuggono, in un continuo esodo, alla ricerca di condizioni migliori di vita, di circostanze più favorevoli o almeno di una tregua dalle proprie sofferenze. Non ci sono solo adulti ma anche tanti ragazzi. Quest’estate quest’emergenza è aumentata molto. Asp Città di Bologna ha così chiesto al Corsorzio Arcolaio (e quindi a Società Dolce) di aprire una Struttura di Emergenza. Si è risposto rapidamente attivando un Servizio in Val Samoggia (Bo); dove prima c’era un “Bed and Breakfast”.

    Vi vengono accolti 18 minori di varie nazionalità. Lo scopo è quello di favorire un percorso d’inclusione sociale, culturale e linguistica, con molta attenzione verso i più vulnerabili. L’equipe educativa ha iniziato a relazionarsi creando un clima di fiducia e di serenità. E’ stato attivato un corso d’italiano per l’apprendimento della nostra lingua. Questo è un luogo di primo approccio per poi orientarli in strutture specializzate.

    Ma chi sono questi ragazzi? Da dove vengono? E cosa sognano?

    Facciamoci raccontare da loro le loro storie: Kenan (nome di fantasia) è un adolescente dall’aria sbarazzina, con due occhi sempre sorridenti che trasmettono tenerezza, ma la sua odissea verso l’Europa è stata molto travagliata. Lui viene dalla Somalia, da 30 anni una terra di nessuno in preda a bande armate, conflitti politici, religiosi ed etnici, epidemie e carestie, in pratica un inferno. Kenan è partito dal suo paese infelice prima dei 16 anni, con pochi amici e la speranza di arrivare in Europa. In un anno, dopo aver attraversato Etiopia e Sudan, rischiando di morire di sete nel deserto giunge in Libia. Un amico muore e gli altri li perde di vista. In Libia finisce per sei mesi in uno dei famigerati campi di raccolta dove è schiavizzato da una banda criminale. Così “paga” la sua traversata su un barcone verso la Sicilia, finisce in un centro da cui fugge, e saltando da un treno all’altro, raggiunge Bologna e si presenta dalla polizia perchè qualcuno gli aveva detto che questa è una città accogliente. Quando gli si chiede qual è il suo sogno risponde: “andare a scuola e lavorare” sfoderando uno dei suoi sorrisi disarmanti, con tutta la leggerezza dei suoi 17 anni.

    Adebin (nome di fantasia) è un ragazzo che viveva in Albania in un villaggio sperduto di montagna dove la gente vive di pastorizia e agricoltura di sussistenza. Quando si riesce ad avere un lavoro vero e proprio si guadagnano al massimo 200 euro al mese. Adebin ha visto ritornare in vacanza al suo villaggio alcuni compaesani emigrati in Italia da anni che sfoggiavano il benessere raggiunto a parenti ed amici. Allora, insieme ad alcuni suoi coetanei ha deciso anche lui di tentare la fortuna. Si è organizzato ed è partito. Sapeva già che da minorenne avrebbe avuto dei vantaggi. Ha risalito i Balcani in autostop e bus. Ha raggiunto il confine italiano nel periodo estivo quando i controlli sono più allentati per via delle vacanze. Poi ha raggiunto Bologna e si è presentato alla Polizia. E’ stato inserito nella Struttura e adesso spera di trovare qui quello che nel suo villaggio non poteva avere: un’istruzione che gli permetta una vita diversa, che è il motivo principale per cui la gente emigra da secoli.

    Se guardiamo…

    Se guardiamo noi stessi e/o chi ci circonda sicuramente troviamo sempre gente “di fuori”. Siamo tutti migranti o discendenti di migranti. Oppure lo sono quelli vicini a noi. Questo costante movimento di persone, questo flusso continuo di gente che scorre nelle vene del mondo non si può fermare, forse quello che si può fare è canalizzarlo, convogliarlo verso il meglio. Ed è quello che stiamo cercando di fare nel nostro piccolo, in questa città, in questa struttura.

  • PROGETTO HABITART

    L’utilizzo dell’arte come strumento di relazione e rielaborazione dell’esperienza si trova in moltissimi servizi dedicati alla persona ma la presenza di questa strategia d’intervento all’interno dei contesti di accoglienza non risuona tanto quanto in altri ambiti.
    Con questa riflessione, abbiamo voluto riappropriarci della manualità artistica, all’interno di un progetto dedicato a donne migranti con vulnerabilità, per riuscire a creare uno spazio d’incontro e convivialità. Proprio in questa attività la condivisione della presenza nel “qui e ora” ha creato un momento unico nel suo genere dove individuo e gruppo si sono uniti in sinergia, centrando di nuovo l’attenzione su ciò che nella quotidianità spesso sfugge: la relazione nel presente. Come sottofondo musica, silenzio, risate, una colonna sonora di condivisione e diversità. Guardando il salotto della casa con i quadri appesi si percepisce il senso e l’importanza del lasciare delle tracce, tracce che raccontano storie di vita e frammenti d’intimità. L’arte che unisce nella bellezza degli incontri che ci ricordano l’importanza di esserci, delle attività che svolgiamo e dei servizi alla persona.