Riflessione del Dott. Andrea Milani,
Direttore sanitario Hospice “Villa Adalgisa” – Ravenna
Ho scelto di fare il Palliativista in Hospice perché credo che, per quanto sia difficile affrontare quotidianamente la sofferenza legata a patologie inguaribili, vi sia un ampio spazio per lavorare, assieme al malato ed ai suoi familiari, sulla qualità di vita in quelle che spesso sono le ultime curve della vita stessa.
Un vero lavoro di equipe, che comprende professionisti diversi tra loro (medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti, OSS) ma il cui obiettivo comune è affinare le proprie competenze sul campo per garantire la miglior presa in carico globale del paziente con malattia avanzata.
Un lavoro dove la clinica è sempre rilevante, ma dove spesso a fare la differenza non è l’auscultazione o l’esame obiettivo, ma il tempo che il professionista dedica all’ascolto, al supporto, all’accoglienza dei vissuti e delle sofferenze del paziente e dei suoi familiari.
Dalla primavera del 2020, quando il ciclone della pandemia da SARS CoV-2 si è abbattuto sulle nostre esistenze, il nostro lavoro è stato drasticamente stravolto in tutte le sue componenti, prima su tutte quella del contatto, di quello che noi definiamo “touch”: all’improvviso, il concetto di distanza ha preso piede, allontanando i nostri volti, le nostre mani, nascondendo i nostri sorrisi dietro ad una mascherina, impedendoci di sederci al fianco del paziente per far sentire in maniera più avvolgente la nostra presenza, il nostro “Io sono qui, come posso aiutarti?”.
All’interno della struttura ho visto nascere le più improbabili amicizie, tra pazienti infinitamente diversi tra loro, che avevano trovato nella condivisione della sofferenza la possibilità di aiutarsi l’uno con l’altro; ho assistito a feste di compleanno con un sacco di invitati, a matrimoni celebrati per coronare amori di una vita, ancora più emozionanti pensando che quel “per sempre” potesse essere anche solo qualche giorno o settimana; ho visto meraviglie a quattro zampe donare conforto e sollievo dove l’umano non era mai riuscito…tutto questo ci è stato tolto all’improvviso, la tisaneria è diventata unicamente un luogo di passaggio, così come i corridoi e le altre zone comuni dell’hospice.
E poi ci sono i familiari, le persone che assieme al paziente portano il fardello della sofferenza, e che si sono ritrovati a subire la più amara delle ingiustizie, quella di non poter assistere (o di poterlo fare solo parzialmente) il proprio caro, di essere aggiornate telefonicamente, di vedere un padre, una madre, un fratello, una nonna, dallo schermo di un telefono, senza nemmeno la possibilità di una carezza…posso sinceramente dire che, durante le fasi peggiori della pandemia, trovavo nel giro di telefonate ai familiari il momento peggiore della mia giornata lavorativa: abituato a guardare le persone in faccia per cercare di percepire le loro sensazioni, il non vedere i loro volti mi mandava costantemente a casa col dubbio su quanto avessero compreso.
E’ stata durissima, lo è tutt’ora, siamo tutti consci che questa situazione ci accompagnerà ancora per un po’ di tempo; lo affronteremo come abbiamo fatto finora, come una squadra unita, forte, pronta a sostenere chi per un attimo rimane indietro, con l’obiettivo di fornire sempre la migliore assistenza possibile a chi soffre, sperando quanto prima di riuscire a tornare ad aprire le porte dell’Hospice a tutti i visitatori, a festeggiare compleanni insieme, ad abbracciare e sostenere chiunque ne abbia bisogno, anche solo per un attimo.
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